Trovarsi dinanzi all’antologia di un percorso poetico mi è sempre parso come un relazionarsi ad un tentavo titanico: le monumentali opere omnia dei grandi poeti del Novecento posseggono, in fondo, quest’aurea santificatrice ma, a tratti, anche bonaria. Quasi, con profonda onestà, a suggerire: questo è un vissuto poetico – con tutta la forza che il termine vissuto possa avere – ed ora tocca al lettore sviscerare e carpire il sussurro di una vita.
È con questo preconcetto, che mi sono affacciato a Prima di Sempre (puntoacapo Editore, 2024), antologia del poeta Mauro Germani, nella quale sono raccolti testi che vanno dal 1995 al 2022. Una mole, questa, di primissimo spessore, un’eredità vigorosa, ma – per mia gioia – suadente e lancinante. Ho riscoperto così, infatti, il valore di un’antologia poetica e ne ho colto ciò che mi sfuggiva, forse condizionato anche dalla clara fama: la raccolta unitaria di testi non è strettamente utile al lettore, non è un esercizio posto a processi di narcisismo; ma rappresenta un passaggio obbligato di auto-analisi per il poeta stesso. È evidente, anzitutto, in Prima del Sempre questa sofferenza selettiva: la dinamica corrente e logica richiederebbe, infatti, un’equa partizione di opere provenienti da tutti gli scritti realizzati, invece in questo testo si percepisce una scelta chiara e personalissima, propria di un riconoscersi. L’ultimo sguardo e Luce del volto (le prime due raccolte del poeta) costituiscono da sole più della metà dell’intera proposta poetica, dando la possibilità di ricavare conclusioni e comprendere come quest’opera rappresenti un passaggio di consegne consapevole, l’anatomia di un’analisi auto-critica dettagliata, che vuole offrire l’unico volto possibile di un’antologia poetica: la visione fluida che ne richiede l’autore e l’autore solo.
Oh, mia lontana leggenda, volto che fosti cuore,
abisso che sarai per sempre il mio nome!
Sono questi i versi che, a mio parere, descrivono maggiormente l’intera esperienza poetica di Mauro Germani. Si assiste, infatti, ad una penombra, ad una sottile, flebile e ritmica attesa verso quel segnale di alba che arriva e, se arriva, sviluppa altre strade, richiama altri nomi. E pur in questa resa sostanziale della potenza, la scrittura mai si innerva, mai si increspa; si muove, piuttosto, per epitaffi al canto lirico della fisiologica tragedia. Il “primo” Mauro Germani – se così possiamo definirlo per le scelte stilistiche, mai per i temi trattati che sono onnipresenti, a tratti ossessivi – libra sull’abisso e lo fa con una lezione di prosastica poetica encomiabile: mai un dirottamento verso una sintassi serrata, mai un cenno di spatriamento verso la consuetudine, mai uno svasamento verso una prosa amaramente colloquiale e ricca di tentavi di accattonaggio performativo. Nel poeta si assiste, piuttosto, all’esigenza di sventrare il perfectus del verso, per divenire strascico. Tre anni per tornare a morire, tre sguardi dietro le case. Ma la strada rimane come un diario sepolto e tu sei tra le righe il cielo cambiato. È in questo canovaccio che trova collocazione la scelta poetica di Germani: la scheletricità, il limite di un’orma del verso sono impropri per la narrazione di una diaspora d’esistenza e la ferrigna – a tratti anti-ninna nanna – crudeltà affermativa del verso è bene che sia espunta nella polvere di uno stadio perenne, di un eterno embrione che merita ancora di nascere, morire e ri-morire; per poi dirsi sepolto e senza voce, come di cammino vuoto. Siamo al canone del nome segreto, una fine senza principio che ricerca nel molecolare di una storia, mai compiutamente compresa, l’iniziativa dell’abisso. Se la vita infatti fosse nell’oggi, avrebbe il suo carico da mandare; ma se la vita è nel già dato, ci si muove nella leggenda dell’avarizia dell’espresso, nell’impossibilità stimolante di trovare – fallendo e riprovando – la giusta misurazione per ciò che risiede al di sotto, come i poveri, le parole saltate. Piangono la stessa agonia, il grido strappato agli ulivi. È un Amen mai definitivo, tanto quanto la consacrazione malmessa, il concesso solo in parte.
Dov’è scritto il nome dell’Assente fioriranno luci e volti già cari.
Sacra memoria del futuro, tempio dell’abbandono!
È la terra un germoglio dove il cielo perdura.
La poesia di Mauro Germani (possiamo stavolta dire poesia nella sua accezione più ampia) è Poesia dell’anti-camera. Una definizione che si àncora in una consapevolezza: l’impossibilità del vissuto di un presente, di un qui ed ora. Riecheggia, infatti, con forza vigorosa il frastuono e l’onnipotenza della veglia, del propedeutico temporale la cui realizzazione non ha voce, non ha parola. Si tratta di un’ammissione catartica rispetto all’esistere dell’uomo: la storia generale di un’elegante e fredda penombra elementare che vuole la sua identità transeunte ; non la sua maturazione. Si chiama nel freddo qui, dove qualcuno aspetta il suo sogno e trema. È una sorta di deittico negato, o possibile solo nella negazione del suo riferito, del suo limitante. In questo eterno status arriva l’eziologia della poesia di Germani con una connotazione onesta ed elementare, propria di chi cerca il segreto essenziale nel vivere. Ci troviamo, insomma, di fronte all’essente-stato husserliano, una coscienza del tempo delicatamente efferata che non ha il supporto d’essere il modo fisiologico dell’apprensione, ma che istituisce il riconoscimento senza mezzi termini alla vita.
Ed è in questo approccio d’esistenza che riluce eterna l’ombra, l’evasione anche dall’efferato della notte. Vediamo col poeta quel – stavolta in versi – duomo bianco nella notte / come un nome abbandonato; emblema di ciò che sfugge e rifugge la sua nominazione: è nome ciò che ha un significato, ciò che è reciso da altro, ciò che è oggettivamente e superficialmente riconoscibile e distinguibile. L’ombra, invece? Può essere distinta? Può essere schiodata dal suo bilico, dalla sua menzogna identitaria? No. Non lo sarà mai. Ed è questo ciò che pare ripeterci Mauro Germani, da figlio esiliato: Volto di luce perduta, falce dell’ora trafitto, ecco il tuo figlio assalito, ecco la voce che nel cielo ti attende. Siamo alla liturgia di un eterno avvento, di un riconoscimento facciale smarrito, di una diaspora – questa sì – definitiva ed immanente.
Danzano le ombre
al canto dell’Assenza
[…]
E non c’è più
non è più qui
il corpo ignoto
del mondo
Questo estratto, che appartiene al “secondo” Germani (perché scritto in versi e non in prosa), certifica la persistenza di una paesaggistica e di una topografia quotidiana. Malgrado, infatti, questa sia poetica che ricerca il significato che sfugge, che si argomenta al di sotto – il resto rispetto al quoziente -, essa ha come assemblaggio non un’altra vita; ma questa vita. Sono i personaggi della vita, soprattutto d’infanzia: la fontana al centro del paese, la lampada, le mura diroccate, Livorno, la finestra, il letto della sera, la cupola del duomo, il sogno quotidiano, l’attesa, il capitano del cielo, il “tu” bambino/a. Perché, in fondo, il dato della transitorietà non è che ricavato empiricamente, il racconto della propria vita è rotto e discontinuo, la corsa alle bici dell’essere è la meta ad un già inteso come già stato o come avverrà già. E questo enuclearsi non è mai stoltamente pessimistico, ma composto in una storia lunga di un nulla che ami, / piccolo capitano del cielo, / piccolo fiore di vento. Si assiste, allora, ad un’infanzia predominante che è giovinezza all’attimo successivo, invissuto.
Questa gioventù costretta, tuttavia, gravida nel mondo, nel suo domandarsi cosa si cerchi nelle viscere, cosa sia impronunciabile perché avaro di parola. È essenziale, in questi termini, richiamare anche la bella riflessione lasciata a termine del volume dallo stesso autore, dal titolo Sulla mia poesia. Una costruzione, per certi versi, ossimorica – se si pensa ad un continuo Assente o Altro – ma che, invece, delinea perfettamente la non eccezionalità o la poca garanzia salvifica che sono consegnate alla poesia. È il quotidiano esperienzato ma irrimediabilmente non passibile di pronuncia (in questo fa eco la forte carica simbolica e metaforica che pervade Germani), quel mattino / che saltavi la corda / sul terrazzo e tutto / cominciò come fosse / vero, tutto precipitò / nell’errore di una voce / impossibile. Siamo sollevati, allora, dall’impellenza e dall’obbligo espressivo, insegnandoci che il vigore della poesia è la sua esistenza comparata e trasversale con il mugugno, con il circoscritto espressivo che non ha faccia, non ha articolazione; solo vibrazione d’aria sul bordo. E questo vuoto, a maggior ragione nel viversi di ogni giorno, non fa paura, ma scaraventa nell’essere semplicemente immanenti al gioco del muto, fatto da bambini.
tu
potrai essere dove
non sei e l’ombra
scivolerà con te più avanti
del mondo – se nel mondo
il tuo nome infelice
per sempre abbandonerai
L’intera antologia, infine, è nominata secondo il titolo dell’ultima sezione – appunto: Prima del Sempre. Si tratta di quattordici testi inediti, nei quali Mauro Germani pare fornire a tratti un climax, a tratti una soluzione a questa eterna irrisolutezza. Ci muoviamo, infatti, in una salmodia (e non va specificato il laico, perché i Salmi nascono come non rituali e non liturgici) che rafforza e rettifica l’argomento e l’ordinamento di questa ricerca perenne di un senso, di un significato. L’ambientazione è sia più che meno claustrale: siamo nella chiesa, sull’altare, tra i modi della donazione eucaristica; ma ora il cielo si schiude, volge ad un Tu definito, che è imponenza e potenzialità – stavolta – non contingente. Rimangono ferme, comunque, le incognite ed i sospiri varcanti di chi sa che, a maggior ragione nel canto amaro del deserto, nella tormenta del pianto del Signore a Lazzaro o per i morti trapassati, esiste un velo di non compreso, una logica ed una ratio che continuano a sfuggire. Eppure, un tempo pare dilatarsi, un archè pare rientrare, pronunciandosi Prima del Sempre, avendo il vigore di dire:
l’aspettiamo
nel tempo che
incede
l’ultimo sguardo
e la parola più vera,
quella promessa mai
cancellata
il segreto
del nostro segreto.
Mauro Germani è nato a Milano nel 1954. Nel 1988 ha fondato la rivista di scrittura, pensiero e poesia “Margo”, che ha diretto fino al 1992. Ha pubblicato volumi di poesia e narrativa e si è occupato di numerosi autori classici e contemporanei. In ambito critico ha curato L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2012), inoltre ha pubblicato il volume Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero (Zona, 2013) e Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei (La Vita Felice, 2014). Gran parte della sua opera poetica è ora compresa nella raccolta Prima del sempre. Antologia 1995-2022 (puntoacapo 2024), con postfazione di Giovanni Nuscis. In ambito narrativo le sue utilime pubblicazioni sono: Storie di un’altra storia (Calibano, 2022) e Tra tempo e tempo (Readaction, 2022). Gestisce il blog “in-certi confini”.