GIANSALVO PIO FORTUNATO
“Per una conformità della lingua” / 3

Il passaggio cruciale tra l’essenza del mugugno e il vigore della lingua risiede nell’esigenza di una politica per la sopravvivenza. Quando l’uomo, infatti, concepisce la possibilità di agguantare, seppur sempre parallelamente, l’eternità e quindi di proiettarsi nell’eterno, individua come scelta plausibile e vantaggiosa l’instaurarsi di una comunità. La comunità, che, almeno inizialmente – allontanandosi palesemente dal nostro concetto di comunità –, si orienta tra le singolarità e non le annichilisce, è una delle ricette dimostratesi utili per la sopravvivenza. Il concetto di comunità, in questi termini, assume il suo vertice massimo e la sua massima elaborazione nell’azione della comunicazione che, da come si evince dalla concordanza fonica ed etimologica, ha per sua origine l’esigenza di porre in comunione, quindi di demolire la proprietà esclusiva di buona parte della propria soggettività affinché sia l’altro, sia vivente che relazionale, ad essere in grado di catturare i punti salienti. Questo catturare non è strettamente un espropriare, a meno che non si faccia riferimento alla nostra quotidianità; è piuttosto l’intento di sviluppare una rarefazione dell’oscurità personale per creare un vigoroso tramonto (non nell’ottica fatalistica del termine), per cui sia possibile contemplare una commistione tra ciò che è assolutamente proprio di ciascun individuo e ciò che invece è bene che sia svelato ed offerto all’altro, affinché l’altro possa adeguarsi e giovarne.

Risente del nuovo principio comunicativo, anzitutto e soprattutto, la lingua. Se, infatti, l’intero cosmo di gesti ed atteggiamenti è condizionato comunque da un principio educativo – ma sempre nella consapevolezza che un gesto non possa delineare pienamente un significato univoco per l’intera comunità -, la lingua (intesa già nella sua accezione categoriale e politica), invece, è il frutto di una maturazione comunitaria essenziale: l’oggettività. L’oggettività, va precisato, non è da equiparare ad una verità trascendente o ad una specie di dogma aldilà delle forme teologiche; quanto è, piuttosto, un esercizio teoretico-gnoseologico, seppur l’uomo che decreta la fine dell’epoca del mugugno non abbia la benché minima idea di cosa siano i processi teoretici o gnoseologici, che annunzia una nuova frontiera: la frantumazione della perentorietà dell’io invalicabile per disporre di un io forato, da cui emergano scenari condivisibili e, per cui, si senta l’esigenza di un sistema di condivisione, di resa comune; dunque di comunione. 

La lingua (con fisiologia diversa rispetto alla scrittura), indipendentemente dai suoni derivanti dalle pronunce (quindi, la percezione uditiva), è un fenomeno prettamente intellettivo che fonda la sua radice nella concettualizzazione. Ed è totalizzante al punto da coinvolgere deliberatamente l’intera fisiologia del cervello, giovando sia dell’irrazionalità che della razionalità. In tal senso, la prospettiva di una trasmissione non per forza onesta, ma comprensibile da tutti, rappresenta la frontiera più alta che si sia mai palesata ad un essere umano; una sorta di manovra irrimediabilmente salvifica che cristallizza l’esigenza di adoperarsi nell’insieme per riuscire a sopravvivere e a vivere quanto più a lungo possibile. La lingua, allora, offre due coordinate: una filtrazione estremamente razionale di ciò che è comunicato all’esterno, perché ogni parola pronunciata comincia ad avere un suo peso, e la modulazione di questo peso. La forza gravitazionale, infatti, della lingua risiede proprio nella formulazione comunitaria: l’imbalsamazione di una sequenza di grafemi, tesi a formare una parola, rappresentano l’atto primo di adesione alla convenzione della comunità. È la comunità, infatti, che ha deciso, ai primordi, che quell’incrocio, ormai non più probabilistico, di grafemi corrispondesse ad una parola e, quindi, più che ad suono univoco – elemento comunque rilevante -, ad un concetto determinato in grado di suscitare specifiche reazioni o di indurre, com’è da effetto in una vera comunità, una peculiare azione. In questi termini, allora, la lingua – a differenza di ciò che tanti hanno ritenuto – non presenta un campo di esistenza assoluto (nella logica dell’ “ab – solutus”, dunque dello sciolto da ogni legame), ma presenta piuttosto un concepimento pienamente artificiale e, al fine di non essere degenerato o perso di vista, un fine, quindi, pienamente determinabile dall’uomo, se è in grado di ricordarne l’origine o, con maggiore forza, anche la sua stessa genealogia. È il monopolio, ovviamente sacrosanto per la sopravvivenza della massa, che ha caricato di tanto significato la lingua e, con essa, che ha modulato con tanto raziocinio e precisione il mezzo della morte e della vita. Spetta, infatti, ad una corretta comunicazione l’influenza sulla vita; spetta ad un’errata comunicazione l’influenza sulla morte, perché è dissolta la base comunitaria del porre alla visione di tutti. Quale, allora, la differenza tra il mugugno e la lingua, se entrambi si reggono sull’esternare un suono e, seppur in maniera molto personale e non articolata, sul suo concepimento concettuale?

Il mugugno è l’espressione massima; ossia – come già chiarito nel precedente articolo – la risultante naturale ed autosufficiente di un istinto e della sua fisiologia. La lingua, invece, è l’espressione filtrata nella comunicazione massima, per cui è definibile come la consacrazione del fare comunicativo e non ha nessun interesse più alto che il raggiungimento dell’altro. Si può dire, anzi, che l’imperativo della lingua sia, per certi versi, un imperativo strettamente ermeneutico. In tal modo, allora, la centralità della lingua diviene la transizione; non strettamente la sedimentazione nei due topoi che si servono della lingua. In una cultura, sia letteraria che filosofica, che si è andata per secoli incentrando sull’io, si scopre, allora, che la materia da plasmare di cui ci si è, da tempi assai lontani, serviti non è altro che diretta alla pluralità e, soprattutto, all’identità dell’altro.Tale frontiera, allora, è da sottolineare rispetto al sedimentare nei due soggetti che si prestano alla lingua, perché è nel far decantare concettualmente quella parola e nella ricezione di quel decantare concettuale che si compie la magia della comunicazione. Il mugugno, invece, non sviluppa questa motilità, ma si rafferma nella perentorietà della sola espressione, perché non possiede alcun interesse nell’altro. 

Compreso l’imporsi evoluzionistico della lingua, il suo basarsi nella matrice ermeneutica e la sua distinzione rispetto al mugugno, siamo pronti, nel prossimo articolo, per nominare, insieme ai primi uomini, il mondo! 

 

 

Leggi anche la seconda puntata.