“La lingua langue” di TIZIANA COLUSSO in un saggio critico di Sonia Giovannetti

Molto singolare e complessa appare l’opera poetica di Tiziana Colusso “La lingua langue”, i cui disparati motivi ispiratori riflettono l’eclettismo creativo della stessa autrice: poetessa, ma anche scrittrice, saggista, drammaturga, editorialista. È infatti tutto l’insieme dei suoi interessi culturali e delle sue convinzioni ideali e filosofiche a trovare spazio e risonanza nei suoi costrutti poetici, a conferma del fatto che la poesia è davvero una geografia dell’anima, capace di rappresentare nel suo pathos generativo un senso generale del mondo nel quale ci accade di essere heideggerianamente “gettati”.

A rivelarlo è innanzitutto la lingua, simbolo preminente del tempo storico, epifenomeno della sua “civiltà”, dei suoi umori, del suo rango; pertanto la distanza da essi non può che manifestarsi come insofferenza per la lingua che li esprime, oggi “bruciata dalle vanità…una lingua da banditori e grulli/ specchietto per allocchi che riempie di reality soap/ il vuoto di realtà” (“Italiano per straniati”). La lingua diventa perciò il campo di battaglia contro un’ “epoca (che) scorre via, gonfia del peggio…epoca sciancata globalizzata/ alienata plastificata/…epoca adultera-adulterata” (“L’epoca scorre via”). Dunque: “Basta con la Scrittura Capitale!/ Solo minuscole plurali scritture…” (“Immacolate concezioni”). Divenuta inautentica come l’epoca che esprime, la lingua tradisce l’umanità degli essenti nascondendo l’essenza delle cose, la loro verità. Il suo possibile riscatto può avvenire solo quando come però raramente accade essa mostra di sapersi avvicinare al dolore, diventando anticonvenzionale e carnale, come nel caso della citata Violette Leduc, scrittrice contemporanea i cui scritti, scandalosamente diretti e sinceri, hanno saputo portare “alla superficie il cuore delle cose”.

La lingua attuale è così la metafora di un’epoca che la poetessa esecra in tutte le sue degradanti declinazioni e contro la quale, sempre più insofferente, ella esorta non già ad una ribellione violenta, bensì alla “resistenza”, una postura non fattuale, ma psichica e spirituale. “La creatura che non s’arrende scava/ nicchie, non trincee/… La creatura che non s’arrende gioca/ il gioco della lingua, ma ha una parola/ sola, in equilibrio sta in vagoni affollati/ a volte piombati, ma non dispera. E dura” (“La creatura che non si arrende”). E ancora: “Io preferisco/ come le salamandre/ resistere/ passando svelta tra le fiamme” (“Resistere come le salamandre”).

Anche la natura è parte di questa resistenza non violenta, giacché il solido e paziente ulivo, ridotto pur esso a testimone dolente di una civiltà degradata, guarda tuttavia con speranza la colomba che “prende nel becco le foglie/ d’un mio ramo sottile, per l’annuncio/ d’una insperata novella di pace” in un mondo fattosi ostile, in cui “ci sono più diluvi che lacrime” (“Monologo dell’ulivo”); così come altri alberi, pur insultati e “inalberati” da una urbanizzazione indiscriminata, che condanna i “platani con i piedi nel cemento” e i “salici accasciati su pascoli canini”, fanno dire tuttavia alla poetessa: “Eppure quando agli incroci sfioro i tronchi/ snocciolando i vostri nomi antichi/…mi soccorre la vostra segnaletica frondosa” (“Inalberati alberi”).

Ma a pagare le iniquità del moderno, e a dovervi resistere, sono soprattutto le donne, vittime di ingiustificabili discriminazioni e di colpevoli violenze. Esemplari, tra molti altri possibili, i casi di Paolina Leopardi, sorella del grande Giacomo e vittima di un gretto conservatorismo familiare, cui “non era consentito partire/ se non al seguito di un marito che però/ non arrivava mai” e solo quando, a 60 anni, divenne orfana, poté finalmente viaggiare e così “lasciare, sazia, una vita/ afferrata al volo, saltando sull’ultimo vagone”; e  quello di Zahra Toufigh, attivista iraniana, barbaramente torturata dal regime, cui la poetessa fa dire: “Non è il rossetto che vi spaura/ ma le labbra da cui volano parole scarlatte come sangue/ versato/…Della parola, soprattutto – della parola che ora/ fluisce in cori di parole e nessun argine riesce/ a contenerla” (le parole, come il libro testimonia dialetticamente, non hanno perciò solo il potere di offendere e di deprimere: possono anche aiutare a resistere!).

Resistenza, dunque: non un mero espediente tattico, ma al contrario, nella prospettiva di Tiziana Colusso, una strategia e una disciplina esistenziale che si affida alla pratica della meditazione come difesa dal dolore inferto “da mani grevi e crudeli”, come rimedio alle angustie e ai miraggi illusori della vita.

La meditazione: l’intera opera poetica di Tiziana Colusso è pervasa del fascino di questa antica e diffusa pratica di matrice buddista e induista, da lei stessa condivisa. La dottrina su cui si fonda non è propriamente una religione, mancando di un dio da adorare, quanto piuttosto una visione del mondo che contempla l’universo e concepisce la vita in tutte le sue manifestazioni, indicando come meta da perseguire l’ “illuminazione”, la soglia più elevata del percorso di meditazione, attraverso la quale è possibile approdare al “nirvana”, al superamento delle sofferenze umane. Essenziale a tale superamento è acquisire la cognizione del “vuoto”, che pensa ogni essere come privo in sé di sostanza propria e generato invece da una relazione dinamica e imprevedibile tra elementi primordiali; una relazione che dà vita a tutto ciò che è e che continuamente diviene. Cosicché il “vacuum…questo brodo quantico/ dove i fenomeni fluttuano” diventa il fondamento di una concezione che desostanzializza il mondo, delineando una prospettiva non dissimile da quelle inaugurate in Occidente dal pensiero di Nietzsche.

È una tale visione che consente a Tiziana Colusso di prendere con la sua poesia le desiderate distanze da un mondo che ella disprezza e di dare altresì ai suoi versi sostanza filosofica. “Vacuum – una parete liscia nel campo dell’infinito divenire/ cui nulla aderisce/…mi soccorre la fisica quantistica che elogia il vuoto immenso/ culla di ogni particella/ fasci energetici vibranti/ che sfrecciano senza padrone…/ nel grembo di questa immensa madre vacua” (“Vacuum mandàla”). La “resistenza” alle nequizie del mondo trova dunque il suo fondamento, che sa di scienza e di filosofia insieme, nell’indeterminismo dei “quanti di energia”, i quali, in accordo col pensiero  buddista, regolano la vita come un’ incessante transizione da uno stato all’altro dell’essere, in un’ ininterrotta rigenerazione dell’energia vitale; una “vita che attraversa i corpi/ in onde di esistenza/ e subito si trasferisce altrove”, secondo un flusso temporale di continuo andirivieni, un “flusso e deflusso” di “pieni e vuoti”, dove ogni inizio è anche la fine e la fine un nuovo inizio, come fanno intendere anche gli espliciti riferimenti ai “Quattro quartetti” di Eliot (“Kalachakra blues”).

La stessa concezione della vita come trasmigrazione continua, come principio unitario e dinamico che assume di volta in volta forme diverse dissolvendosi e ricomponendosi senza sosta, dà finalmente anche ragione della scelta originale dell’autrice di aver voluto dare vita, con “La lingua langue”, ad un’opera multilinguistica. Una scelta etica ed estetica insieme, per la quale le forme diverse della vita, che poggiano tutte sul suo unitario fondamento, devono coerentemente potersi esprimere in lingue diverse; queste diventano così lo specchio dei diversi volti di una stessa umanità, concepita oltre i confini geografici in cui è convenzionalmente frazionata, ma che in realtà è tutta contenuta e convivente in un unico, infinito, spaziotempo.

Ma cos’è il tempo, nella poesia de “La lingua langue”? Quel tempo che in Kant, più ancora dello spazio, è la trama di quel “senso interno” che ci consente di avere contatti col mondo? È un tempo, per Tiziana Colusso, che “non mai tra i bivi…si erge vertiginoso, scivola/ piuttosto come una seta o un’acqua, imprendibile inquietante/…un tempo…sempre orizzontale/ nel provvisorio fluido movimento che non lascia tracce o impronte”, ma lascia nella propria inesorabile scia “tutti i crocicchi disattesi” e le “troppo lunghe attese”, come tutte le “non decisioni” della vita (“Non mai tra i bivi il tempo”). Questo tempo trascinatore, che irretisce assorbendoli nel suo eterno movimento rimpianti e pentimenti, arriva però anche a lenire i travagli di coloro che, assoggettandosi alla sua indifferente maestà, riconoscono la sua legge.

Ma il tempo, sempre evocato nell’opera, è anche musica: “respiro della materia – musica” (“Il suono del possibile”); e la musica è a sua volta tempo “metronomo della parola sul leggio del tempo” (“Kalachakra blues”). E musica e tempo insieme sono la possibilità stessa della poesia: “Solo la musica forse sa la lingua/ del possibile – il prima e il dopo di ogni esistenza”. La poesia è infatti ritmo, come ben sapeva anche Amelia Rosselli (non a caso citata da Tiziana Colusso), e nelle sue antiche origini, com’è noto, essa aveva forma musicale. Da sempre, inoltre, “accade la poesia per pieni e vuoti in bilico tra tecnica/ e magia” (“A nuoto nel vuoto”):  la poesia è anche, come la musica, “una lingua del possibile”, di ciò che non è ancora ma non perciò irreale, come pensava anche Maria Zambrano, per la quale “ la realtà poetica non è solo quella che c’è, quella che è, ma anche quella che non è; abbraccia l’essere e il non-essere in ammirevole giustizia caritativa, giacché tutto, proprio tutto, ha diritto ad essere, finanche ciò che non ha mai potuto essere”. Una lingua, quella poetica, che vive anch’essa nel vuoto della non materia, nei sogni, nel ritmo del respiro, nell’orizzonte infinito dello spazio-tempo, alla ricerca dell’essere oltre le apparenze, in specie quelle che ci infliggono dolore, ma che, come sappiamo dalla saggezza orientale, dobbiamo imparare a considerare illusioni.

Sonia Giovannetti è poetessa, scrittrice, saggista e critica letteraria. Fa parte di molte associazioni promotrici di arte e letteratura; è membro e Presidente di Giuria a Premi letterari. Vincitrice di molteplici concorsi letterari nazionali e internazionali. Le è stato conferito il Premio Accademico dall’Accademia Internazionale di Arte e Poesia, il Diploma di “Poeta della Città ideale” dal Centro Di Studi Danteschi, la segnalazione per meriti letterari come  scrittrice all’iniziativa “Noi sì – la forza positiva delle donne nella costruzione della società” da Roma Capitale, il Premio “Prix Spécial Associations Culturelles” a Parigi e il Premio Caput Gauri. L’Università Pontificia Salesiana le ha assegnato il Premio “Certamen Apollinare Poeticum” e “Spoleto Festival Art Letteratura” il Premio “Per i meriti e risultati ottenuti come scrittore e letterato”. Ha pubblicato di narrativa: Le ali della notte (Armando Curcio, 2014); di poesia: Ho detto alla luna (Aletti, 2012), Tempo vuoto (Tracce, 2013), Un altro inverno (Kairòs, 2015), Dalla parte del tempo (Genesi, 2018), Pharmakon (Genesi, 2021), Cien poemas – Más allá del muro (Grupo Editorial Sial Pigmalión, Madrid 2024); di saggistica: La poesia, malgrado tutto (Castelvecchi, 2022).