GIUSEPPE FEMIA “Natalina teneva le fila” (Albatros 2024)
nota di lettura di Laura Massacra

Immagini di Casaluce Geiger

La vita (dello psicoterapeuta) come opera d’arte

Poche cose al mondo risultano altrettanto interessanti come l’osservare la genesi di una scoperta nell’atto stesso del suo compiersi. In tal senso, l’opera del dottor Giuseppe Femia ci dischiude le porte della scoperta della psicologia umana sia attraverso un’esposizione di casi terapeutici, sia mediante la narrazione di un racconto che si snoda lungo il testo e che per l’autore è ammantato di un’aura mitologica ricca di simbolismo e significati ancestrali.

In generale, il gesto della scoperta, sia nella scienza che nell’arte, dove per “scoperta” intendiamo la messa a terra dell’atto creativo, consiste sovente in una lunga serie di arresti, cadute, ripensamenti, blocchi, ripartenze. È così che, per esempio, una originaria intuizione si presenta, all’inizio, con un confuso sincretismo in un sistema caotico di immagini e riflessioni dove, solo in apparenza, tout se tient. Le scoperte di una formula matematica, di un’opera d’arte, così pure di una metafora che determini una precisa configurazione chimica, vengono dapprima guidate da una grossolana ipotesi e, solo dopo molte prove ed errori, tentativi fallimentari e illusori successi, raggiungono una piena definizione che si attagli efficacemente al mondo e alla realtà psichica o fisica. La genesi della scoperta diventa così un’avventura mozzafiato fatta di buriane, marosi e perdite di rotta in cui l’approdo non è certo, la navigazione sempre irta di ostacoli e tormenti.

Tale euristica ha un sapore esaltante per chi la compie, appare come una esplorazione in solitaria e raramente ne viene condiviso il percorso ma in questo libro il dottor Femia riesce brillantemente a consegnare al lettore  l’atto terapeutico nel suo farsi, la dinamica di relazione nel suo disvelarsi reciproco costruita attraverso le paure del paziente, le angosce del terapeuta, i vuoti, i salti logici, la sfida comune alla ricerca di un senso che tutti i nodi sciolga e che tutto ricomponga in un nuovo panorama psichico atto a restituire equilibrio e serenità.

Attraverso una riflessione sempre attenta ai propri stati emotivi e al rapporto con i pazienti, Femia ci svela il mondo segreto del terapeuta che, se visto dall’altra parte della scrivania, sembra osservare il malessere dell’umanità con le chiavi già bell’e pronte a disinnescarlo. Femia ci conduce invece a comprendere quanto amore, quanta dedizione e quanta frustrazione si celano per forgiarle, quelle chiavi, assieme al paziente, all’interno del setting terapeutico. E l’autore compie questa messa a nudo della figura professionale con uno stile innovativo che trasmette, in diretta, gli abissi della relazione, la paura del fallimento terapeutico, lo stallo e le successive conquiste. Lo fa attraverso una continua messa a tema della vertigine stessa del pensiero nello sforzo incessante della scoperta della verità psichica del paziente.

Mediante l’utilizzo consapevole di quello che Merleau Ponty chiamerebbe lo “strabismo dello sguardo”, in cui il riflettore cerca di essere puntato allo stesso tempo sull’oggetto di indagine e sull’atto stesso del guardare/osservare, riesce a consegnarci il sentimento di spaesamento, la noia come pure il generarsi di un patto terapeutico di fiducia, e lo fa restituendoci un’autentica disposizione verso l’altro, insieme alla rara capacità di autocritica che consiste nel mettersi continuamente in discussione durante la relazione terapeutica. Capacità autocritica che si dispiega inoltre nella riflessione sul rapporto tra narrazione e scrittura e sulle modalità con cui la scrittura rivesta un ruolo fondamentale nella elaborazione del proprio vissuto.

Un testo prezioso che diventa un vero e proprio vademecum per chi, della propria vita, vuole fare dell’euristica della relazione, e della propria esistenza, un’opera d’arte.