Mi troverai vivo di Antonio Corona è un libro che parla di colpa e di redenzione anzi, della redenzione che sempre è implicita nella colpa perché, come dice l’esergo tratto da Gorgia di Platone: “Chi commette un’ingiustizia è sempre più infelice di colui che la subisce”. E il percorso di liberazione non può che passare per l’esperienza del dolore perché solo la sofferenza è in grado di lavare l’anima e di riportarci in vita. Una via crucis tutta umana dunque, inevitabile sia per la vittima che per l’aguzzino.
Il libro si articola in un prologo, tre movimenti ambientati in tre diversi “luoghi” di pena e riscatto e un epilogo; una sorta di inscenamento della tragedia quotidiana del vivere da cui non c’è scampo ma che infine ci determina come “esseri umani”. Come scrive Rosanna Frattaruolo nella postfazione: “La parola poetica è l’arma affilata da Antonio Corona per affrontare la ferita originata dal duro contatto con la malattia, con il carcere e la delusione sentimentale e per riuscire a vedersi come altro rispetto alla propria sofferenza”.
Nella catena di torti patiti e colpevolezza, di ingiustizie agite e ingiustizie subite, non è possibile evitare le conseguenze del male, neppure quando è provocato da noi stessi. Tuttavia, la cognizione del dolore porta con sé saggezza e autoconsapevolezza.
Singolare è il testo di apertura della prima sezione, “La fatica del tempo” che introdurrà il lettore nello spazio angusto del carcere. In esso dodici pecore vengono condotte al sacrificio in uno straniante contesto urbano; due di esse vengono uccise e, al termine del rituale, soltanto pezzi di corpi morti, sedici zampe e quattro teste, giunsero ai portoni. Una mattanza cruenta più che un rito propiziatorio, allegoria, forse, della perdita dell’innocenza e della mitezza in un mondo che richiede, al contrario, un freddo atteggiamento di durezza qui impersonato dalla figura del sacerdote-macellaio.
Dopo il sacrificio della mansuetudine immolata sull’altare dell’esperienza, si giunge, come anticipato, in un carcere dove non la luce ma il buio entra dalla finestra. Eppure, in questo luogo di oscurità si imparano molte cose e, soprattutto, come si possa evadere dal chiuso di una cella grazie alla fantasia sprigionata dalla pratica del disegno, della lettura, dello studio di una nuova lingua. Tenersi vivi in una prigione significa anche apprezzare la dolcezza di una condivisione forzata ma virtuosa. Come i carcerati di Oscar Wilde ne La ballata del carcere di Reading, i detenuti di Antonio Corona imparano la pietà, e noi con loro. I ragazzi del corridoio che reclamano il cielo inducono allo stesso sentimento di compassione suscitato dai versi di Wilde io non ho mai visto un uomo che guardasse con occhio così ansioso / il minuscolo lembo di azzurro che chiamano cielo i carcerati.
Ognuno uccide ciò che ama, ripete più volte il poeta irlandese nella sua ballata ed è esattamente questo l’argomento della seconda parte del libro di Corona, “Lo spazio della clessidra” in cui si consuma in quattro atti la tragedia dell’amore-passione. La sezione racconta la morte di un vincolo amoroso e del lutto che ne consegue, mediante una sequenza di immagini legate all’idea della mutilazione, del ferimento, della perdita di funzioni corporali e mentali. Infine, l’approdo a una lenta guarigione che passa anche attraverso il processo dello scrivere in versi: ho preferito poi / usare una matita 2B per scriverne poesie.
La terza e ultima sezione porta un titolo assai significativo, “Assenza di omeostasi” con chiari riferimenti, nei versi, ad un contesto ospedaliero. Il termine “omeostasi” indica la capacità di un organismo di mantenere stabilità tra interno ed esterno attraverso meccanismi di autoregolazione; è invece quando si crea uno squilibrio tra corpo e mente, tra bisogni intimi e condizioni ambientali circostanti, che può insorgere la malattia. In preda a un morbo, nella corsia di un ospedale, attorniati dagli oggetti simbolo del ricovero e della sofferenza (la sedia per l’ospite, il vaso per i tulipani) spesso ci attende la prova più dura: riuscire a sopravvivere, dimostrare di potercela fare.
In definitiva, la vita pulsa più forte proprio quando ci si sente al minimo delle forze, quando si è indeboliti dalla delusione o dal patimento, quando si è vittime dei propri sbagli. Malgrado tutto, sembra dirci Antonio Corona, sono la frustrazione e la vulnerabilità a costituire la via obbligata che conduce dalle tenebre alla luce, a quelle dodici candele che, nell’epilogo, ardono sul nero braciere insudiciato.

Antonio Corona, nato a Sassari (1972) vive a Torino dal 2008. Veterinario di professione, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali. Grande appassionato di poesia, arte e cucina partecipa alla fondazione dell’Associazione Culturale Vivere d’Arte di Torino nel 2017, di cui è tuttora consigliere. Solo nel 2020 decide di pubblicare la sua prima silloge poetica I segreti del cuocore (Ensemble Edizioni). Seguono le raccolte Controfobie con Eretica Edizioni (2021), con La Vita Felice Oltre la neve (2022) e Mi troverai vivo (2024), finalista al Premio Nabokov e terzo classificato al Premio Città di Grossetto. Le sue poesie sono state selezionate per antologie, riviste e quotidiani (La Repubblica). È vincitore di diversi premi letterari tra cui il Premio Adrenalina 6.0 nel 2021, il Premio Internazionale Fōrma Cultura nel 2022 e il premio Alberto Negro alla videopoesia 2023. Attualmente impegnato nella divulgazione della poesia attraverso il gruppo “Vivere d’Arte-Letteratura”, scrive per i blog letterari “Parole Poesia” in collaborazione con Cinzia Marulli ed è co-fondatore del lit-blog “Il Tasto Giallo” con Rosanna Frattaruolo.