DAVID LA MANTIA, Finestre. Taccuino 1935-2022, inSchibboleth 2023, nota di lettura di Tiziana Colusso
Facendo finta – mine de rien – di parlare di sé stesso e delle sue vicende familiari – padri, madri, zie, nonni – David La Mantia ci parla della poesia, anzi scrive poesia, anche se la forma è quella della prosa, senza essere pretenziosa “prosa poetica” o “poème en prose”, ma proprio prosa, con l’andamento piano della prosa, eppure piena di ritmo, di sussulti, di frasi memorabili, di lampi di illuminazione.
Poi, ad un certo punto, nomina proprio la poesia, con una delle “dichiarazioni di poetica” di cui è costellato il libro, che trapassa senza cesure dal quotidiano al simbolico, dalle scarpe slacciate alla metafisica. “La poesia è tutto fuorchè pura. Anche quando vive nella natura, ha il sapore della resina, delle mani appiccicate, della terra rovesciata dalle formiche. Quando abita con noi, poi, è fida compagna dei batteri dell’intestino, e si nutre del nostro sgomento, delle nostre tasche vuote, ama sporcarsi del vomito delle coliche, ungersi delle fette di pane all’olio che mangiavamo da bambini.”
L’autore dice di sé stesso “Sono un maglione a rovescio, o almeno è così che mi racconto”, e parafrasando il proverbio popolare si potrebbe dire “la sa lunga e la sa raccontare”, ma senza malizia, il suo saperla lunga è la lunghezza delle generazioni che ha incorporato in sé, nel corpo e nel sangue proprio, e in quanto al saperla raccontare, evviva se c’è ancora qualcuno che sa raccontare, invece di cincischiare con le parole…
David La Mantia esplora il “senso dell’abitare in questo mondo” , affacciato a tutte le finestre del mondo, “anche nei sogni”, e la sua esplorazione, da circoscritta e individuale, diventa esemplare, le malattie, la povertà, la rabbia, sono difficoltà esemplari, proprio come exempla, genere agiografico medioevale di racconti di tribolazioni e salvezze. Anche se in David La Mantia salvezze non ce ne sono, forse soltanto “l’illusione di trovare un motivo, una causa a un dolore lontano e inconoscibile, nato chissà dove, forse in vite che ci precedono (…)”
A me, che sento con empatia, come fitte nel corpo, il dolore degli animali quasi più di quello degli esseri umani – forse perché quest’ultimo è troppo difficile da circoscrivere, troppo perturbante – è parso di trovare eco forte di questo “dolore lontano e inconoscibile” nelle piccole storie di animali incastonate come delle mise-en-abîme della narrazione di umane dolenzie: la storia del cavallo Nero, dei pappagallini, degli agnellini che prima di Pasqua corrono per i prati. E perfino degli insetti salvati dall’acqua, “raccogliendoli, unendo le mani a forma di coppa, e appoggiandoli sul bordo”.
In fondo scrivere è questo: salvare dal Lete dell’oblio ricordi, parole, sguardi, paesaggi, lineamenti, prendendoli con delicatezza uno ad uno ed appoggiandoli sul bordo, sull’eternità effimera di una pagina.