DAVIDE CORTESE “Malizia Christi”
Edizioni Croce, 2024 nota di Giansalvo Pio Fortunato

Entrare nel mondo di Malizia Christi (Edizioni Croce, 2024) significa progredire in una sequenza disarmante, in un approccio immaginifico che sa mescolare efferatezza, simbolismo e sottilissima ironia. Davide Cortese, in quest’ultimo lavoro romanzesco – poetico, sa giungere con delicatezza: chiede permesso, ma, spalancate le porte della visione, ripete a voce ipnotica il suo messaggio. È il gioco severo dei bambini, in fondo. È il sovvertimento della prospettiva classica di una riproposizione realistica della vita. Attraverso il linguaggio operativo e favolistico di un bambino, il poeta sa, quindi, sviscerare ancor più sinergicamente e simbolicamente i temi di una riqualificazione del tempo vissuto, del tempo sociale, del tempo interiore.

È, in tal senso, il tempo un ponte portante dell’intera narrazione. Si affronta il tempo congiunto e oltre-oggettivo: la nascita lo stesso giorno del signor Babelsberg e del centenario poeta Marradi, il chiasmo tra i soli 6 anni di Adam e la sua già spianata vita adulta (il che contribuisce ad una resa ossimorica meravigliosa), la quasi fine del poeta centenario che, non sorprendentemente, sprigiona una nuova mitologia, col centauro metà uomo e metà cavalluccio a dondolo. È anche la storicizzazione efferata ed assoluta: la tenera vicenda dei fratelli Kimberly, rimasti orfani ed artefici del loro stesso destino, è la dimenticanza per il grande poeta Numa Diawara, il vissuto recriminante tra il non aver apprezzato Miguel, il poeta non poeta, e l’amore tranciato con Elsa, la Malizia Christi che, come tanti altri libri del Biblirinto, andrà a scriversi o a rimanere incompiuto nella carcassa del Titanic dei fondali, è il presagire profetico che il corvo Murnau lascia con la donazione della sua penna adornante. Per giungere, in ultimo, alla significazione temporale ribaltata: Adam Babelsberg sa nascondere il suo amore – celarlo entro il velo della pudicizia – ed ha già scritto, da stralcio sapientemente riportato da una passante, un’autobiografia notevole (“Io sono Adam”), mentre l’amata Westwood non sa reggere il confronto con la realtà, abbandonando in fretta e furia una festa di compleanno; è la costruita infantile maturità del poeta Marradi che rifiuta il premio tributatogli e la calma auto-iconoclastia della bellissima Westwood, che distrugge il suo simulacro alla ricerca di un’eternità da spazzare via; è il piccolo Thomas che conosce il senso dell’eccezionalità di una sola parola proferita e l’abbondanza di parole del ventriloquo e del suo fantoccio; è la ricerca di un oggetto artistico da consacrare negli ombelichi di Malick e la sicurezza del signor Babelsberg nel saper viaggiare entro i libri non scritti, entro una realtà che si genera procreativamente.

Esiste, allora, un vigoroso sodalizio tra l’anzianità e la giovinezza, un contraddittorio non ostracizzante: il bambino sa nominare la vita, sa reinventarla alla luce del suo positivissimo faberismo che lo spinge ad essere sempre in moto, ad un eterno dischiudersi alle vicende illogiche e paradossali dell’esistere; l’anziano, alla luce di una vita già solcante ed adempiutamente sperimentata, sa ricreare la genialità di una dimensione onirica dell’essere al mondo e sa godere di un arresto pienamente in flusso della propria storia. Si innesta, dunque, una miracolistica dialogante: nel grezzo di un quotidiano alterato, Adam e Dorando riescono ad esaudire il desiderio celato di ognuno, riescono ad inaugurare un complesso di vicende ed ombre che non inficiano, ma arricchiscono e tengono compagnia. La costante, infatti, dei titoli entro il Biblirinto ha proprio l’obiettivo di osservare oltre il ferimento della carta, di ingiungere un’ideazione che sia alternativa al dirsi immediato della propria vita. Più di tante analitiche, è qui che Davide Cortese ci mostra la fisionomia squadernata del fare arte: simbolizzare è rimodulare lo sguardo sul mondo, potenziando gli spunti più fascinosi, più ammalianti, per farli portatori di altro. Marradi e Babelsberg non agiscono per astrazione, ma paraboliscamente: innestano situazionalità che fanno emergere la loro paradossalità di essere umani contornanti dall’affetto, ma irrimediabilmente soli, nella rispettiva casa di libri e nella casa dominata dal busto di Platone. Solo, tuttavia, nella fase di infanzia ed anzianità si ha la spregiudicatezza di scommettere sulla propria rovina o su quella biografia che fa voltare di sbieco il suo vivente, ma solo di sbieco. Dove sono, infatti, i genitori di Adam? La vita non lo ha, forse, sorpreso abbastanza? Come mai Dorando è così solo? Non ha mai avuto figli? E la critica accademica: lo elogia per un solo libro, semplicemente al compimento dei cent’anni?

Qui la rovina è narrata giocando ad Indiana Jones, a soldatini nella vaste distese dei deserti quotidiani.

In questo intenso impianto contenutistico e riflessivo, che fa saltare agli occhi la controtendente sincerità delle relazioni umane in uno scenario contemporaneo di linguaggi altamente spersonalizzanti, si innesta una ricostruzione poetica di notevole ed unica fattura. Si è, infatti, in una grammatica frammentata, in un alfabeto morso e pieno di senso, attraverso la sagacia di fulminanti dialoghi che, nell’apparente medietà di una enucleazione di semplici emozioni o vicende caratterizzanti, ampliano lo spettro verso una circolazione più ampia, verso la connivenza del misterico che si inscrive nella luce di ciò che è tutto scorto. Un passaggio, quest’ultimo, mai materialmente o praticamente estremizzato nei suoi contorni, ma connivente. Come avverrebbe normalmente nell’esistenza di ognuno. È il fluttuare delle bolle di sapone della signora Westwood tra le gravitanti lapidi del cimitero della città di Debrama, in una significazione in cui lo scenario sacrale sale oltre la sua stessa etimologia. Non è, dunque, più il sacer, ma la vigorosa forza immaginifica che potenzia la vita riportandola sulla terra. Sembra Davide Cortese sussurrarci che, se l’eccezionalità ombratile o lucente dell’essere al mondo vada ricercata, tale operazione avvenga attraverso la spinta alla rivalutazione dei contrasti quotidiani, come in un amore passionale che stravolge la vita dei fratelli, figli della marchesa Yvonne de Saint Jacques; attraverso la spinta alla compromissione procreativa dei dogmi inarrivabili ed incontrastabili. Come può un libro esistere, non esistendo? Come può Adamo non avere un ombelico?

Cortese va, allora, alla ricerca del primo uomo, non selvaggio, non disadattato; quanto già maturo, satiresco. Davide Cortese, come con Zebù bambino, fa la conta con l’infante eracliteo, lasciando uno spiraglio oltre-analitico.

Tutti i personaggi di Malizia Christi, infatti, hanno ricevuto un taglio umano ragguardevole. Sanno suscitare una partecipazione pura. In queste ossature carnali e spirituali, si scorge la forza di tensione emotiva vigorosa. Una tensione – va precisato – che non aleggia nell’incrocio di una scansione “retorica” e di una sublimazione “sentimentale”, ma entro la naturalità gestante di carni che si innestano. La reazione di trasporto ed anche di commozione (non sto banalizzando) per alcune stanze presentate, infatti, è estremamente rara da incontrare nel panorama letterario odierno. E tale riuscita è da attribuire, ancora una volta, alla forza di ricerca poetica del nostro autore: entro il sovvertimento antipodico, guardando il mondo dall’ombelico, Davide Cortese ci illustra la storia di ognuno e di tutti. Se Zebù bambino ridefiniva il racconto archeo-logico dell’ancestrale, Malizia Christi adempie ad una nuova “Utopia”, priva di idealismo, per tirare in ballo, come a conta per il nascondino, la nostra città, la nostra spazialità.

Grazie a Davide Cortese possiamo finalmente bere una tazza di tè che non finisce più: una tazza di tè alimentata dalla pioggia.

 

 

Davide Cortese, classe 1974, è un poeta e scrittore dell’isola di Lipari. Tra i suoi testi ricordiamo la silloge poetica Darkana, Zebù bambino (un poemetto sull’infanzia del diavolo) e i romanzi Tattoo Motel e Malizia Christi.