L’Albero di Alfabeti, nuova raccolta poetica di Francesca Lo Bue, è solido, ben piantato a terra; antico come una grande quercia si eleva al cielo con rami leggeri e intricati, sapientemente capaci di svettare solitari in alto verso la luce o di incontrarsi tra loro, sorreggersi a vicenda contro il vento e le intemperie, non disdegnando di portare il proprio peso verso il basso, per poter risalire rafforzati e rigenerati.
Questo Albero Alfabeto germoglia lemmi e fonemi, custoditi e curati nel suo ventre materno, mater della lingua, o di più lingue, che li mette al mondo, li avvia a un cammino dove impareranno a farsi parole e suoni.
Il bilinguismo, cifra basilare della poetica e punto centrale della biografia e della storia culturale dell’autrice, ha un suo specchio e un suo rovescio: le lettere dell’alfabeto vengono infatti declinate, narrate e rappresentate da un doppio intrigante, consapevole e definitivo, che le accompagna lungo un viaggio, un’erranza che mira a trovare, o a ritrovare, una casa dove poter compiere il proprio destino, come ci suggerisce l’autrice nella intensa nota introduttiva.
La suddivisione del libro in due parti, la prima con testi in italiano e poi tradotti in spagnolo e la seconda con traduzione inversa, non deve trarre in inganno: non si tratta di una semplice organizzazione testuale finalizzata a evidenziare la presenza costante di due lingue, come sopra accennato, ma sembra invece voler dare rilievo alla varietà e alla pregnanza semantica delle immagini poetiche che da questo incontro, o scontro, linguistico prendono vita.
Se la prima lettera, o lemma come si preferisce, l’Alpha iniziale apre il cammino della prima parte con questi versi :
Aspirazione è dissotterrare il ritmo del tuo/alfabeto … l’avvio corrispondente nella seconda parte sarà Amable instante. / Acontecer que es reencuentro …
La partenza prevede allora un’aspirazione, l’arrivo un amabile istante, abbandono che è un ritrovarsi.. L’aspirazione a trovare, scavando a fondo, dalla terra al cielo e viceversa, la parola giusta, la sua armonia, l’amabile istante di un ritrovarsi nel caos del mondo, nel labirinto delle proprie ossessioni.
Questi segni che si fanno suoni e parole veicolano, ciascuno nella sua suggestiva narrazione, la necessità di trovare il centro delle cose, il senso ultimo della propria essenza e presenza; ed è la parola, quella poetica, a poter forse allontanare lo sconforto della solitudine, a trovare oltre una pace che non c’è nuova armonia.
L’albero degli alfabeti non si ferma al binomio linguistico della rappresentazione di due lingue care all’autrice, ma si affaccia su altri codici linguistici da cui prende termini che amplificano la prospettiva poetica, rievocando nomi, contenuti, presenze, echi di altre culture, ne citiamo alcuni tra i più significativi: karma, Kasher, Kabuki o ancora Yahvè, Yiddish…
Questo albero sembra voler abbracciare tanti alfabeti, ma infine chi parla, chi emette il suono di vita è sempre l’uomo e la terra che abita: Hombre, aire que se va acabando./ Hace y renueva inutilmente ofensas y desenganos./ Habla pero es extranjero entre los caminos del mundo./
Hace escritura para enaltecer la carne que se acaba./Humus de paciencia, tus edictos/hendieron el cielo mudo. Son/hazana de la Luz consistente,/himno que aleja el ejército de moscas y ciempiés que gritan a la luna muda.
La parola è vita e l’alfabeto è respiro di parole, ci ricorda Francesca Lo Bue:
Parola aspetto da te,/passi nel sentiero delle tue melodie, aiuto nel/
pericolo del mondo./Promiscuità ciarliere s’inchiodano nell’animo, nella/
patria del cuore dove la/passione osserva e soggioga./Parola sfuggita alla paura e al caos, con te attraverso le/porte infide del Labirinto delle voci opprimenti.
Dunque l’uomo e la parola sono le coordinate che attraversano la ricerca, poetica ed esistenziale della Lo Bue che sa quanto la Poesia sia un viaggio di ricerca del vero, di un ritmo naturale e di assonanza profonda con ciò che sta intorno e dentro di noi.
E in tale prospettiva è doveroso infine ricordare la sezione TRADUZIONI che chiude questo bel libro; una scelta certamente non casuale quella di omaggiare in chiusura due autori tanto diversi e distanti, sia per biografia, sia per collocazione geografica, la Dickinson e Kavafis, ma legati da quel fil rouge di esilio, reale e metaforico, che li ha segnati; entrambi trovano il punto d’incontro nel testo di Neruda in esergo Esilio e Riscatto, che li accoglie e abbraccia, evocando una triade prestigiosa e originale quale nume tutelare della Poesia alla quale la nostra autrice si affida, chiudendo il cerchio dell’enigma, perché La vida es un unico verso interminable, come dice l’Angelo custode Gerardo Diego.