GIANSALVO PIO FORTUNATO
“Avvenenza degli oracoli” /2

Ed era, in principio, l’apoteosi del mugugno, la rilevazione di un sistema divaricante l’espressione. Si ritenne, infatti, che la parola seppe continuamente quale fosse il suo giaciglio e poi il suo fine ultimo; ma, quando si giunse a questa considerazione, l’ormeggio vero del verbum vivificato era lontano e il vero senso della parola ricadeva arenato. Esistette, per la parola stessa, il pre-mito la stesura eziologica che anticipasse l’imperativo alla salvezza: se un uomo si distingue da un animale – recitavano gli oracoli disseminati – è per la sua capacità di sfatare il limbo della non modulazione. Quella modulazione arrivò fin dal principio, fu udita e le vesti della procreazione di un porto sicuro le si modellarono ai fianchi, rendendola agibile ai quanti s’accontentavano dell’antitesi al Sileno. Al principio del mondo, vi fu l’evanescenza d’una redenzione e l’abisso arginava un suo spazio estremamente ampio, un limes destrutturato ed incapace di fornire una zona d’ombra, una salvezza comunitaria capace di rendere il mondo nel pieno dell’eternità. In quei giorni, visse l’abominio della mangiatoia: le stuoie della carni si raggomitolavano vicendevolmente. Ed era il dolore e la fame, l’abbondanza e l’ilarità, l’immanenza della notte e la grazia immanente del giorno. Un unico sacerdote intonava l’antifona, fuggendo il precipizio: Fu la A per il simbolo del principio, fu la B per rafforzare la salvezza, fu la Z per portare a compimento la redenzione!

Quel sacerdote visse secoli e secoli; grande fu la sua discendenza e resistette sempre più vigorosamente al mieloso istante del tramutare: s’inarcava il mondo, non la voluttà a placare l’irrefrenabile. Fu il raziocinio nelle sue più splendidi vesti, l’attimo sempre dopo la perentorietà del sentire. Da quel momento, l’uomo visse soggiogato dal dopo e dall’esistenza d’una realtà incavata nella non accettazione brutale. Nacque, allora, il mistero, la monolitica dell’ascetismo oltre l’azione tangibile; nacque il paradosso. In quel paradosso, si calò anche il sacerdote che, privato ormai della materia della vita, capitolò a ciò che aveva cercato quanto più possibile di debellare e, per l’ultima volta, il fetore della grazia divampò in tutto il suo fragore. Seppellito secondo usanza, i suoi figli stabilirono i nomi, dati dalla comparata moltiplicazione ed associazione dei segni. Fu grande l’assemblea che decretò autorità alla vita e fu la prima genesi: si generò una comunità, capace di procreare l’oggettività, sottoponendo la soggettività al rigore dell’uno. Si compose un unico scheletro avente unica voce per esigenza e non per suono. Fu il gusto del suono solo successivamente.

Photo: Valentina Ciurleo

La supremazia dello scandalo dell’indefinito non poté, allora, durare a lungo. In quei momenti d’inesistenza dell’eterno, visse il mugugno nella sua instancabile ed amata soggettivazione; arma appuntita che feriva la terra, originando il fluire della vita. S’instaurò il suono gutturale nelle sue declinazioni incoscienti, si schiuse il senso estremo del piacere, la voracità ardimentosa del dolore e l’eccitazione nella peregrinazione, nel frammentario donarsi alla molteplicità fondata su soggettività forti e caparbie. In quei giorni – pur essendo il giorno denotazione successiva – l’uomo travalicò la sfera dell’incomunicabile: fu comunicato tutto e per intero e valse a se stesso la parasceve, il segno unico ed irrimediabile di chi risiede in una psicologia che fosse propria e solo propria, aldilà di ogni condizionamento di base, di ogni condizionamento teoretico. Furono quei giorni beati per la poesia e la scissione tra l’imperativo alla traduzione e l’impossibilità di una traduzione totalizzante non rappresentarono mai il problema d’esistenza di alcun essere umano. La poesia sfatò il totalitarismo del tradursi, del trasmettersi nella pienezza d’una forma di giudizio della comunità; la poesia fu anti-grafemica, l’assoluto di un simbolo istintivo per cui l’oscuro veniva vissuto nella sua pienezza.

Così, l’apparato fonico fu rudimentale, radente l’aridità, e la pienezza del pensiero risiedette in una visceralità che si forgiava nella completezza dell’essere presente solo a se stesso, senza la presunzione di dirsi onnipresente ad ogni altro individuo con cui interagire. La poesia si ricamava in minimi suoni, minimi gesti, scarsa simbologia; ma pienezza di contenuto. Esisteva la pienezza del mugugno, della personalizzazione, per cui ogni gesto ed ogni suono proferito, ogni declinazione alternativa a quella di una parola ben calmierata, erano segno ed indice di una risultante fragorosa, un parto prepotente che discendeva dalla sola esigenza intellettiva. In quei giorni, l’eufemismo era bandito: il dolore divampava nel suo strazio a chi lo provava (aldilà di ogni principio estetico, perché mancava un’alterità che sentisse l’esigenza di affibbiare un valore misurato all’esperienza dell’altro), la gioia ed ogni altra sorta di sentire erano espressi nell’unica forma di pienezza possibile.

Non vi era beatitudine in quei primi momenti del mondo, perché la vita è tanto cosa cara; ma vi era autosufficienza nella comunicazione, soddisfazione nella catarsi di quel suono. In quei momenti, gli oracoli viaggiavano lontani e nessuno, prima che se ne palesasse l’esigenza, reputava opportuno avvicinarli.
Il soddisfacimento del mugugno era esercizio poietico totale: il suono proferito, non ascrivibile né antropologicamente né storicamente al concetto di lingua, era frutto di una suadente e compiuta transitorietà; un atto, seppur transitorio, che incarnava pienamente la considerazione aristotelica, quindi la più alta mai formulata, di atto. Il mugugno era momento diemico, per cui pienamente adempiuto e vissuto (potremmo addirittura ritenerlo come perfectus, dunque portato a compimento) che nasceva non semplicemente come risultante, quanto si poneva come azione pienamente pensata, fine a se stessa ed incarnante la totalità dell’azione. In quei momenti, se si ragiona solo sulla produttività della sensazione bilanciata tra l’interiorità e l’esteriorità, il mugugno era altamente produttivo perché frutto di una pulsione muscolo-intellettivo derivante da una sensazione intrinseca, per la quale si richiedesse fisiologicamente l’emanazione di quel suono anti-suono. Era, insomma, la poesia – pur non essendovi ancora una lingua e, quindi, non essendovi ancora dei canoni lirici – che adempiva, per chi sviluppa un vissuto nella poesia e non un’estraniazione meramente stilistica della poesia, alla sua forma più alta: non comunicare la propria interiorità, ma divenire conseguenza fisiologica di ciò che si sedimenta nel proprio oscuro. Il mugugno rappresentava, allora, la poesia generata in se stessa e per se stessa.

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