ILARIA PALOMBA “Scisma”
Les Flaneurs Edizioni, 2024 Nota di Giansalvo Pio Fortunato

Di una vita resiste un filo di corpo e l’ombra di un’anima che traspira ancora il legame. Tale resistenza è impertinente, lenta, avvenente – a tratti – colta come il trionfo della disintegrazione. C’è sempre una resistenza nella corporeità: quel passato prossimo che ti afferma, con le luci e le radici degli altri, sul terreno che hai rinnegato, che hai rifiutato per intero, sottosopra. Così la vita si ri-finisce, come se al momento il potenziale dettasse la legge e affermasse il sintomo dell’ombra: la luce che è neon e mangime da tecnologie per restare in piedi, ed il buio che non presenta il suo pasto, se non per gentile concessione di un corpo, d’altro soggetto (d’altra logica). Resiste, allora, questo dibattito: è il corpo a trionfare sull’anima? è l’anima a trionfare sul corpo? è la sorda causalità reciproca a non accettare la fine, il quanto basta di un mondo già tralasciato, tutto?

Così si ritorna alla ri-finizione. All’accessorio che plasma il contenuto: lo finisce, per il nuovo – però -, per il dato che non ammette ritenzione: solo l’origine che si appollaia sulle cure della consapevolezza, sul crudo abbandono della pietà. Il ri-finito nomina un confine. Forse è vero: è la soglia che fa nominare i mondi, è lo sguardo dell’abisso, del ramo scorticato e reso innesto, che definisce l’interno, dischiudendolo, aprendolo alla pancia della propria biografia, della propria storia di mezzo. Si costruisce l’eccesso come dote di un non riuscito: può il corpo segnare la sorpresa, il ri-attacco d’esistenza, il cuore pulsante di un rifiuto metafisico? L’incrinatura delle ossa, lo sforamento del bacino oltre sede, il fegato e la arteria epatica antisismiche, la vista che seleziona incontrastata, il cuore che solleva l’emergenza: c’è un potere intenzionale nel corpo che sconfigge il rifiuto, ricrea una città di adattamenti non voluta.

 

Valium. Litio. Clozapina. Lyrica. Polveri mefitiche lassative. Più di dieci farmaci. La pillola per il fegato: in rianimazione avevo il fegato perforato, l’arteria epatica pronta a deflagrare. Ventotto trasfusioni. È abbastanza come anestesia? Tornati nelle stanze dormiamo tutto il giorno per vivere una vita che non sia questa, per dimenticare il dolore, per inventare un fuori. Dimentica la successione del ricordo…

 

Questi adattamenti sono spesso il segno di una storia che non chiede permesso, o meglio, di un’interruzione isolata e momentanea che rasenta l’impresso di un’orma debole, il fuoco di un calendario non bruciato; anzi proseguito. La resistenza di un corpo cementante è solo nei meandri del tempo oggettivo (del tempo per altri, non per se stessi) e scuote l’emergere, il nuovo inizio che, contravvenendo all’eternità ciclica (o riaffermandola), inscrive in un reale nuovo inizio. Non funziona così liturgicamente, tuttavia, il nuovo tempo soggettivo. Non è mai indipendente: lascia il conto di uno scisma e comincia a sussurrarlo sulla parete bianca e vuota, sull’incrocio con le assenze che affermano che un tempo sia trascorso, su un circondario che è tipicizzato, malgrado la propria volontà. Non è mai indipendente, perché il corpo ha fallito la rivoluzione. O ha innestato una ricomposizione di colorazioni diverse. Il problema non è nel solo corpo scomposto – se il dubbio di non superare la notte diviene realtà, il corpo perde la sua oggettivazione temporale e si arrocca alla salma della lancetta – ma in quella vitalità che continua, in quella luce che si impone, non richiesta.

 

Io non vedrò più luce,

voglio essere amata

dalla tenebra nerissima,

volto nel deserto.

Amata, oltre la

profezia, verso

il limite accecante

del buio

dal folle sole calante

 

 

 

"Scisma" di Ilaria Palomba
              “Scisma” di Ilaria Palomba

 

 

Ed in questa cronologia sincopata che affolla di volti, la trascuratezza è un lusso di altri giorni, di tempi prima dello scisma. Il corpo presenta il suo conto, ma è il passato a ramificare. Non si tratta di riannodarsi ad un’altra sé – questo avverrà, ma successivamente – si tratta, piuttosto, di avvolgere in una nova sfera, che è novità solo per se stessi. Ogni atto di rescissione, infatti, è difficilmente consensuale. Così una molteplicità di volti fanno arrestare il mondo e, se fosse necessario, chiariscono le ombre del nuovo concepimento. Gli affetti restano affetti perduranti. Affetti che mantengono quell’amore che ora riconosce una parola alla vitalità manifestata: esortano a resistere, ad inscriversi in un ascolto guidato da una sfera che va a ragione propria, che continua a carburare. Esortano a riconoscere che il passaggio per l’abisso è avvenuto, ma senza esito. Esortano a ricostruire, a rinominare quel nome che non è più il proprio – soggetto ed oggetto sono divaricati bene, per non incontrarsi – e a farlo nella danza di un calvario che, comunque sia, deve passare. Non c’è scisma nel tempo di un corpo salvatosi, non c’è scisma nello sguardo dello spettatore: tutto è caricato sullo stesso verso, affidandosi a quel poco di comodità, recata in un tempo altrui restio.

Quattro viti nel gomito

due chiodi nel bacino

ricostruzione della vertebra esplosa

stabilizzazione in elledue

frattura del sacro. Ecco lo scisma:

mi hanno riunita alla gamba destra

non si muove, cade a picco, il piede

sul cuscino. Devi accettare, dicono.

Salvami dal mio nome

salvami da ogni male.

 

Il paradosso, che definisce l’attrito della reciprocità causalistica tra corpo ed anima, è insito la refrattarietà dell’anima (posta genericamente come soggettività: ma che soggettività c’è nello scisma?). Se lo sguardo si alza agli altri malati, ai patenti di una sorte di rinascita non indotta, emerge la propria responsabilità. Se si guarda agli altri tentativi, agli altri momenti di assoluta interruzione, resta il limbo, l’intermezzo, il riecheggiare scomodo. Allora il tempo soggettivo resiste e, con esso, l’adattarsi ad un mondo, la lentezza di un’ostilità al nuovo presente. Necessita di lunga cura la nuova notte / prima di rendersi mondo. Perché succede questo ad un noi eziologico che costruisce, poi, un noi costretto o di nuova possibilità. Caino ed Abele sono il modello di una rivoluzione che, per essere tale, deve necessariamente disporsi come rivoluzione violenta, segno di una lesione collettiva, ma radicata soprattutto nella persona, nei resti storici e storiografici. L’Abele ha fatto il suo corso, rimanendo a guardare la diaspora di Caino. Abele si è salvato ed ha scritto la narrazione dei nuovi tempi. È così che l’anima resiste, truccandosi diversamente, adescando i tempi del silenzio, invertendo le logiche, chiamando il vuoto senza palliativi. È così che l’anima è rivoluzionata. Aveva ragione la Harendt quando estendeva l’etimologia della parola rivoluzione ad ogni forma di assestamento antico: la rivoluzione era legge imperturbabile che faceva camminare infinito il cerchio, senza mutarlo. Aveva torto la Harendt quando non riconosceva la novità dell’autentica rivoluzione: si può passare ad un altro cerchio, ad un mondo rovesciato. Resta quel corpo che ha sconfitto e che guarirà. Resta un’anima, traviata, ri-disegnata, che riosserva le cose con lo sguardo di una storia totalmente nuova, pur tendente ai suoi originali poli.

Non si torna indietro

dalla visione.

Verticale è solo una

prospettiva. Una forma

dell’inviolata sostanza.

Guardami, non ho più

nulla di umano. Resta,

ho paura del buio.

 

 

 

Si ritorna ancora a quell’Abele. Scisma (Les Flaneurs Edizioni, 2024) è la parola, alla fine. Mai Abele poté narrare l’ira di Dio, la diaspora punitiva di Caino. Non permisero mai che irrigidisse il mezzo. Credevano, certo, nel miracolo. Da un accoltellamento, però, si attendevano un esito certo. Questo poemetto mostra che c’è una parola, alla fine. Una parola che enuclea i tanti inciampi, una parola di accettazione per l’incommensurabilità gettata della vita, per l’incontro umano della sofferenza, per un gesto di gravità che rallenta una caduta, per una sistole testarda, per una Il-aria che ora riesce a dischiudersi col corpo, con l’anima, con la solidità della terra di mezzo.

 

Questo dovrebbe portarci alla resa

il silenzio delle basiliche, lo spazio

aperto dei chiostri. Solo questa

prima luce dovrebbe incidersi

nella volontà e disincarnarla.

Non la legge di un insieme

senza verità. Solo questo

giardino capace di fiorire

nel dimenticarsi.

 

 

 

Ph: Dino Ignani
Ph: Dino Ignani

Ilaria Palomba è una scrittrice fuori dai canoni, le sue esperienze spaziano da un lavoro di ricerca in Sociologia dell’immaginario al CeaQ, in particolare sulla performance art, ai laboratori di scrittura nei centri diurni di psichiatria, dalla redazione di riviste letterarie all’organizzazione di festival di poesia. Sempre concentrata sul tema del disagio, ha aperto un blog in cui ha condotto un’inchiesta sul dolore dell’anima, ha lavorato poi come editor, fondato blog letterari. Ha pubblicato i romanzi: Fatti male (Gaffi; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero; Premio Carver 2015), Una volta l’estate (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi; da cui lo spettacolo teatrale Disturbi, con regia di Olivia Balzar, andato in scena all’Ivelise di Roma nel novembre 2019), Brama (Perrone), Terrafelice (romanzionline.blogspot.com, tradotto in bosniaco), Vuoto (Les Flaneurs); le sillogi: Mancanza, Deserto (Premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), Microcosmi (Ensemble, premio Semeria casinò di Sanremo 2021); il saggio: Io Sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud). Ha scritto per La Gazzetta del Mezzogiorno, Minima et Moralia, Pangea, Succedeoggi. Ha fondato il blog letterario Suite italiana, collabora con i magazine La Fionda e Le città delle donne.