RITA PACILIO “Così l’anima invoca un soffio di poesia”
Marco Saya Editore 2023 nota di Giansalvo Pio Fortunato

Così l’anima invoca un soffio di poesia: non poteva che essere questo il titolo più appropriato per l’antologia poetica ventennale (Marco Saya Edizioni, 2023) della poeta Rita Pacilio, voce robusta ed unica nel panorama letterario contemporaneo. Entro i testi, infatti, si è armonicamente scossi da un’aurora sussurrata e silente, nella quale la poeta sceglie di dar voce al residuo, alla stratificazione mai pesante di una poesia quale linea interpretativa e calmierante di un vissuto fondato sul divenire identificante. Ed ecco che, in una mia apprensione personalissima, si possa rivedere la poesia come passo fisiologicamente claudicante ed ossimorico, che, “sconosciuta” / dalle “mani così fragili, così vaghe / che “muovono saggezze antiche”, sa coniugare, senza mai gravare nella pesantezza di questa ricerca identitaria, il ruolo edificante del ritorno ad un’eredità alla lunga attesa parzialmente decodificata, propria della transitorietà nel non pronosticabile. In questa indagine pneumatica della poesia nella poesia (ed in questi termini è vigoroso il richiamo procreativo al soffio) si scovano le coordinate gestazionali di un atto poetico che sa balenare tra un “mio paese” che “ha uno spazio irrisolto / deserto e abbandonato” e l’epigrafe, di giusta ammissione topomnestica, in cui “Sono io il mondo” è la risultante di un continuo coesistere diemico tra la volontà di sviscerare la carnagione umana della poesia e la volontà mai celata di “conciliare vita e spirito / capire quanto sia reale l’invisibile”. Ciò che si costruisce, allora, è il sussurro di un verso in grado di autointerpretarsi, di osservare l’alimento di una direzione non meramente descrittiva, a favore, invece, di un orientamento ermeneutico vigorosissimo, capace di lasciare nella traccia (la poesia) il senso costitutivo della traccia stessa (della poesia stessa).

 

Sia lodata la vita, sempre sia lodata

Io l’ho amata ogni mattina

nell’eternità celeste questa terra

travestita a festa e silenzio.

L’ho amata di felicità sull’isola

come fossi io stessa stesa

sull’acqua nel canto libero

di chi crede ancora che amarsi

è tutto questo coprirsi di baci

 

 

In questa salmodia, la poeta riesce ad imprimere un volto nuovo alle cose del quotidiano, le ricostruisce come un’avvisaglia, una prospettiva sospirante e dialogante con la latenza, creando un microcosmo essenziale che è in grado di instaurare un ponte tra la superficie e l’allusione al composto universale che muove quella superficie. In questa “strana morte”, allora, “nel disordine dei frutti / si aspetta il lampo per cadere all’ombra”, fino a “cadere a terra disegnando uno scarabocchio”. È così che si istituisce il rimando più che a una legge universale, ad una colloquialità interessata alla ricostruzione di un ritmo della vita; un ritmo – elemento pregiatissimo della poesia paciliana – che si costruisce entro il vissuto, entro la relazione, con occhio profondissimo, con un mondo che ha volontà di schiudersi, di raccontare la comunicazione da decifrare. Si supera, quindi, il vigore di un oscurantismo, di un’occlusione verso correlativi oggettivi, per ottenere una tensione epifanica. Attraverso questa ricerca, il residuo diviene finalmente nuovamente residuo, così che si racconti avendo già saputo, già posseduto: “Questo siamo quando lasciamo / una casa, un fiore, chi abbiamo amato”. In tali termini, dunque, si assiste allo sforzo di raccontare il mistero, alla sommatoria delle cose che cerchiamo finalmente di dirci per costruire una benedetta forza aurorale.  “Senti come respira / questa larga aurora? Come è morbido / il bacio nell’aria. Senti?”. Esiste in Rita, allora, la forza di una vergine di luce – senza ascetismi di sorta – la volontà di inscrivere una fuoriuscita dall’ombra, l’educazione al superare la natura cataclismatica della poesia, per esaltarne l’eccezionale ordinarietà dell’impulso.

 

Gli imperfetti sono gente bizzarra

lasciati nell’arena, non so dire esattamente,

come un silenzio, un ghigno.

Ho pensato che Dio ama l’insicurezza

e le sfumature dei dirupi.

 

Io mi trovo qui dove non si torna indietro

 

 

La capacità d’autoconsapevolezza, tuttavia, non preclude la profonda visione anamnestica dell’altro; anzi la rafforza senza deroghe. È, entro un poema del dolore, che viene raccontata la sofferenza degli imperfetti, la fisiologia d’equilibrio straniero degli esclusi da un sentire ordinario. La forza psichica della poeta è qui sviscerata in tutta la sua forza e prominenza. Non si scivola mai in pietismi o in impossibili volontà empatiche; quanto è la poesia stessa lo scheletro da riformare secondo la reazione al dolore ed al vissuto dell’altro. Nell’ “affanno in superficie / mi accade di cercare la bocca / per affidarmi a quel vuoto / il tocco della lingua delle cose”: un tocco inscritto nella ferita, in una ferita che ha il potere della trasmissione, generando un nuovo mondo in cui, all’ovvietà del dato sofferto, si radica la rimodulazione simbolica che sa decifrare il sentito. Nella poeta esiste, infatti, un pedagogico ed esemplare spirito di resa tangibile dello strato più recondito di un’anima. Ed è così che nell’ “amico di stanza, che è “una corteccia, si allinea il depotenziamento di una ritmica rigidamente imposta, una ritmica nella quale “non è possibile fermarsi a cena / alle sette il sonno li seleziona / diventa un ronfo lucidato”. In una – ad una visione superficialissima e minimalista – narrazione diaristica, allora, si inscrive il lascito testamentario di un dialogo attento con i senza labbra, con gli inascoltati malgrado la loro voce interiore. Ed è questa voce interiore, questo flagello di continuo bilico tra gli stessi luoghi, le stesse pareti ostracizzanti, che Rita riesce, con profonda ed impastata visionarietà, a tessere la trama di un biografismo assennato e su più livelli. I personaggi della poeta sono quasi tutti senza nome (ritroviamo al massimo un Alfonso), ma sanno essere caratterizzati psico-fisicamente, compiendo una radicalità enorme al costrutto della poesia: la nominazione necessaria. Sia inutile il segno distintivo di una firma o di una calda resa profetica – così da dirci: “la prigione di mio fratello / è oracolo timido” – eppure questi sono dei deittici, mossi dal flusso di un’esperienza, da un vissuto entro l’ecatombe manicomiale. È proprio in questo lavorio di ri-esistenza che si colloca la grande sensibilità sensoriale e dialogica della poesia paciliana.

 

Dalla finestra ti vedo curva, bianca

e alta

scesa dal cielo come chiara rugiada

tra me e te c’è il passato difficile

un timone spezzato senza meta

 

Oggi ti stringerei forte!

 

 

Ammetto che il distacco radicale dal flusso unitario di una nota possa essere di cattivo ed insano gusto, eppure credo che Quasi madre (peQuod, 2022) richieda questo arresto. Tale raccolta rappresenta uno scrigno elevatissimo di poesia che merita d’essere vissuta (vedi come un relazionarsi) e poi metabolizzata. Un simile lavoro poetico – senza alcun fare da omaggiante di comodo – è oggettivamente posto in una drammaticità complessiva ammirevole. È evidente, infatti, che la poeta stia ricostruendo a posteriori il rapporto singolare con sua madre. Ma ogni riferimento, ogni rielaborazione, è compiuta con la sacra e dignitosa volontà di una consegna. In un panorama poetico, in cui la poesia diviene spesso la fognatura che accoglie il lascito di acque espulse – non di acque calmierate e poi fatte fluire verso la foce -, quest’opera giunge, prim’ancora che per la densissima carica emotiva, quale esempio rarissimo – almeno nella contemporaneità – di cosa significhi compiere una riprocreazione che rappresenti il senso più alto del poiein. Sono presenti, non a caso, chiari interloqui con un tu in bilico, in cui a stento ci si riesce a determinare, “mantenendo in equilibrio il tuo affogare / e l’estensione luminosa della speranza”. Non si tratta, in realtà, di una ricostruzione sillabica degli ultimi momenti, ma ci si trova innanzi ad un’assiduità di un tempo psichico altamente caratterizzato.

 

 

Così l’anima invoca un soffio di poesia – Rita Pacilio

 

 

Ed ecco che ogni ammissione, trattata non nella sua oggettiva realizzazione, quanto nella sua riconduzione – a tratti onirica – , è presentizzata; dunque costruita in un rimando memoriale. “Adesso qualcuno prenderà il suo posto sbiadito / nella scatola tenuta in mano” che si coordina col precedente “Tra loro quella tristezza scritta sui libri / un deja-vù nostalgico”. È in questa abilità tecnica, che mira a collocare e riempire entro un multipiano temporale, che si inscrive il nuovo tempo della coscienza: il dolore mai sopito di una quasi-presenza è così chiamato a congedarsi definitivamente, a compirsi nell’analisi di una conclusione attesa, perché già iniziata nel principio. Malgrado possa – in apparenza – centrare poco, pare di trovarsi innanzi, microcosmicamente, alla ritrazione husserliana: è l’avvinghiarsi continuo di memorie sequenziate, di passati in cui “è così semplice trovare una scusa”, che fanno arrivare ad un senso momentaneo nel quale il mettere “gli occhiali scuri per non guardarmi”, dà adito al volto efferato di un nuovo attimo, che grida: “non ti scomodare non devi volermi bene”. Questa ricostruzione di perentorietà, di caratterizzazione edipica del vissuto, è ciò che emerge in tutta la poetica di Rita Pacilio. Così il senso di spatriamento affettivo diviene la forza reattiva di un presente da ricontestualizzare e da svicolare da un passato di quasi-figlia; così il sentire dell’ “erba sommersa / campagna che occhieggia / alle caviglie resilienti senza timore” è l’invocazione salvifica ad una madre natura che si contrappone ad una madre caratterizzata dall’ “assenza che ti ha mischiata al silenzio”. Quasi madre, allora, incarna il cuore pulsante dell’intera poetica paciliana ed ogni ricostruzione di appartenenza, ogni rimando alla celestialità della natura, ogni nominazione precisa di un sentirsi di se stessa e dell’altro, rappresentano l’instaurazione di un attimo espressivo nuovo ma mai svincolato – sempre ritratto -, capace di rinnovare una figliolanza che combatte il mi chiami tre volte, mai con il mio nome.

 

Mi hai ripetuto

Perché piangi bambina adorata?

Stavolta sorridendo me l’hai detto

 

Ritrovo il respiro dell’anima

Nei baci assetati

e maledico nettare e pene

 

In questo vortice di onestà e forza autoanalitica sono evidenti, in ultimo, due aspetti che rendono unica la forza poetica di Rita Pacilio: misura ed eleganza stilistica, densità immaginifica. È assai raro, infatti, trovare nella quotidiana scena letteraria una potenza contenutistica congiunta ad una limpidezza stilistica estremamente pronunciata. È il linguaggio quotidiano che, con grande maestria, è unito alla possibilità di avere accesso a tutto lo spettro rappresentativo della semantica italiana. Per questo è assai frequente il rintracciare felici coesistenze tra termini propri della quotidianità (anche altamente materici) e termini tesi alla costruzione più avanzata di un significato inusuale ed altamente soggettivo. Tale architettura, inoltre, è sorretta magnificamente da un’eleganza poetica artigianale, che si innesta con la ricerca continua di una musicalità insita allo scheletro del verso. Dono, quindi, equamente vigoroso in Rita è senza dubbio anche la prospettiva altamente immaginifica, tesa alla congiunzione ed alla ricomposizione di un mondo attraverso un dettato di non ovvietà, ricostruito con naturalezza. Per cui, con vicinanza – a mio parere – all’esperienza poetica di Pierluigi Cappello, è in lei inscindibile la presentazione di uno spaccato profondo che si alimenta tra il sentire silenzioso del quotidiano ed una proposta di immagini poetiche che schiudono l’oltre che insiste su questo vivere all’oggi.

 

È per tali termini e considerazioni, allora, che si può legittimamente ritenere che questa antologia di Rita Pacilio sia, prim’ancora che un dono fatto ai lettori, una vera miniera per la nostra letteratura contemporanea.

 

 

 

 

 

Rita Pacilio nasce a Benevento nel 1963 e vive sulle colline sannite. Si è formata presso l’Università degli Studi di Napoli conseguendo la laurea in Sociologia – indirizzo socio-psicologico – e la specializzazione in Mediazione familiare e dei conflitti interpersonali. Si dedica alla poesia, alla narrativa, alla letteratura per l’infanzia, alla saggistica e alla musica. Direttrice del marchio editoriale RPlibri, è Presidente dell’Associazione “Arte e Saperi”.

Rita Pacilio è ideatrice e direttrice artistica di Festival dedicati alla poesia tra cui il “Festival della poesia nella cortesia a San Giorgio del Sannio” (dal 2009 al 2019) e il “Festival della poesia lungo la via… un altro modo di dire poesia”.