TIZIANA COLUSSO – Sémina concitata del frammento [3.03.24] L’orgoglio della divergenza

SEMINA CONCITATA DEL FRAMMENTO…Tre versi bislacchi, forse solo il primo centrato metricamente come endecasillabo, gli altri fuori metro e anche fuori tono, troppo aulici e astratti per la ventenne inquieta che ero io al momento in cui li ho scritti, e che poi li ha conservati trafitti, cancellati e quasi sfaldati, in una valigetta di pelle piena di carte, memoria di un tempo che ora, nell’era dei pensieri partoriti direttamente al computer, sembra un secolo fa. Quasi arrivata al tempo in cui si cerca di dare un senso ai pensieri prima che la vecchiaia li scompagini per sempre, mi entusiasma riprendere i miei cahiers – accumulati e conservati con cura dall’inizio degli anni ’80, attraverso lutti, traslochi e trasformazioni radicali – riempendoli di nuovo di frammenti, consegnati alla carta, peritura quasi quanto la carne. Il frammento mi torna come orgoglio di un pensiero che non si fa sistemare in scatole e sistemi, né in generi letterari. Ora il blog della rivista «Formafluens Magazine», la mia creatura data alla luce nel 2009, potrà accogliere qualcuno di questi frammenti, in un passaggio forse non indolore dalla carta allo schermo. Ci sono tesori di carta che rischiano di dissolversi come pergamene tirate fuori da un sarcofago. Ma è arrivato il tempo forse di farmi anche archivista e seminatrice, non potendo contare su future amorevoli cure per i miei concitati frammenti.

[3 luglio 2014]  L’ORGOGLIO DELLA DIVERGENZA L’orgoglio della divergenza oggi mi è tornato prepotente all’attenzione grazie a due accadimenti apparentemente irrelabili: un film del tipo cosiddetto distopico, “Divergent”, del 2014, niente più, in sé, che una fantascienza ben radicata a terra. Il secondo accadimento è stato l’occasione di sentir parlare dell’amata Simone Weil in un seminario di cui per ora non darò conto, non è tema da frammento. È invece tema giusto per un frammento l’orgoglio della divergenza, del rifiuto di essere tutti dentro una classe, un pensiero, un’ideologia, una religione, un genere letterario o sessuale. Da sempre questa divergenza mi è sembrata sintomo di una malattia ondivaga e inconsistente come un vento d’altomare. Ieri sera vedendo il film “Divergent” ho ritrovato il patema di chi cerca di nascondere la propria “divergenza” rispetto alle “classi” (nel film “categorie”) per non finire cacciata nel girone degli “esclusi”, nel quale finiscono tutti quelli che non sono riusciti, o non hanno voluto, restare nelle categorie predisposte, ovvero “intrepidi”, “eruditi”, “gentili” “abneganti” e “candidi”. La protagonista nasce tra gli “abneganti” e sceglie, non senza difficoltà, di trasferirsi tra gli “intrepidi”, per poi scoprire che nemmeno quello è un suo posto. Il film ha poi un’evoluzione veloce di battaglie ed alleanze, come ogni film d’azione che si rispetti, ma quello che mi importa qui è che alla fine la protagonista prenda coscienza del suo essere “divergente” e lo assuma non come vergogna da nascondere ma come sostanza del suo stare al mondo. Perfino la sua antagonista nel film, prima di essere sconfitta nella battaglia, le dice “I divergenti minacciano il nostro Sistema. C’è della bellezza nella tua Resistenza, ma il tuo rifiuto ad essere inquadrata è una bellezza che non possiamo permetterci”.

Ho sempre amato Simone Weil – se mi è consentito pensarla nello stesso pensiero dedicato ad un film, ma credo che a lei non dispiacerebbe – proprio per il carattere non sistematico del suo pensiero filosofico, non riconducibile ad un’unica ideologia o idea del mondo. Sono sempre stata convinta che ci sia un’enorme infinita bellezza nella sua Resistenza, nel suo resistere a ogni incasellamento. Eppure, in molti ci provano e ci hanno provato: chi la vuole come eroina anarchica (una casa editrice anarchica ha anche pubblicato una serie di scritti con il titolo “Incontri libertari”). I marxisti hanno provato in ogni modo a ricondurre Simone Weil nell’alveo di un pensiero al quale comunque doveva molto. I sindacalisti la considerano una “madre nobile”.  I cattolici da sempre si intestano la filosofa francese, pubblicandola ad esempio per Marietti ( “Pagine scelte”, un’antologia voluta da padre Ernesto Baldacci). Un libretto de Il Melangolo mette una sua fotografia in divisa della combattente nella guerra civile spagnola sotto il titolo “Filosofia della Resistenza”, anche se poi la resistenza qui evocata è quella non di moderne guerre ma di figure come Antigone, Elettra e Filottete. I buddhisti e gli induisti possono attingere a piene mani dalle pagine dei Quaderni, con parabole, esempi e perfino dissertazioni su termini sanscriti.

Ma, appunto, i quaderni (CAHIERS) sono uno zibaldone di pensieri, contenitore tipico di ogni “Divergente”, per le maglie larghe e accoglienti di ogni impennata del pensiero. I Quaderni di Simone Weil raccolgono diciassette quaderni manoscritti, fitti di deviazioni ardite del pensiero, di citazioni in lingue antiche e moderne, occidentali ed orientali, ma anche di annotazioni personali e di disegni. Uno degli studiosi di Simone Weil, Giancarlo Gaeta, ha definito in una prefazione i Quaderni weiliani “una grande opera polifonica in cui può capitare di smarrirsi”.

E smarrirmi e naufragare mi è sempre dolce nel pensiero irriducibile di questa testarda ragazza francese, per la quale “Il mondo è un testo a più significati, e si passa da un significato ad un altro mediante un lavoro. Un lavoro a cui il corpo prende sempre parte”. Ma sul tema del corpo in Simone Weil non mancherò di tornare, magari dopo labirintiche divagazioni.  A bientôt !